24 settembre 2006

Bali - A U S T R A L I A !!!!!!!!!

Su un altro autobus arriviamo a Bali, con questo nome esotico nelle orecchie che ci solletica la voglia di spiaggia.
Errore. Avete presente Sharm El Sheik? Peggio.
Ci accolgono, in serata al nostro arrivo, Dolce e Gabbana, Gucci, negozi per surfisti fighi, luccicanti pub e ristoranti pacchianamente "locali".
Preferiamo ricordare l'altra Indonesia e ci troviamo un posticino in un alberghetto carinissimo in una viuzza appartata.
E' troppo tardi per informarci sulle navi o sui voli, e cerchiamo un punto internet per leggere la posta.
In cento metri di strada ci offrono nell'ordine: occhiali da sole, hashish, cocaina ed eroina. Alla faccia del Paradiso esotico!!
La popolazione e' composta da ventenni minigonnate e poppute con "papa' " che le accompagna, surfisti tatuati e palestrati con la fronte prominente tipica dell'idiota, e coppiette che fanno shopping con addosso roba uguale a quella che stanno comprando.
I locali, poverini, scimmiottano i ricchi pensando di essere cosi' come loro: non sanno che per farsi accettare servono soldi, non vestiti o atteggiamenti.
La notizia che mi ferisce a morte e' che non ci sono possibilita' di arrivare in Australia via terra: bisogna prendere un volo per due ore. Cazzo!!
Il giorno dopo cerchiamo un volo economico e che sia in giornata e, ovviamente, non c'e'.
Lo troviamo per il giorno dopo, con la Merpati Airline (uau!), con scalo a Timor e poi destinazione Darwin.
Vediamo di sfuggita anche la spiaggia, dove un mare verdognolo, ma non cosi' esaltante, e' solcato da surfisti impomatati che sfrecciano con non curanza tra le chiome dei coraggiosi bagnanti. Meglio la piscina dell'hotel, tranquilla e con un bel milk shake al cioccolato a portata di mano.
Io nel frattempo mi sono graffiato la caviglia. La ferita, che diciamo cosi' ho un po' trascurato, ha fatto infezione e ho il piede grosso quanto la coscia. Decido di iniziare una cura di antibiotici e il giorno dopo va gia' meglio.
Al mattino ci presentiamo per il check in; io ho gia' la mia bella ansia da volo e il panico sta bussando alla porta per entrare.
Stranamente in questo primo tratto patisco, ma non come al solito. L'aereo e' un Boeing 737 e non si muove poi tanto.
Il secondo tratto lo facciamo su un piccolo bimotore della North Aerline, australiana.
Questo in fase di decollo balla assai di piu' ma, come tutti gli aerei piu' piccoli, non mi mette paura.
Sono le 17 ORA AUSTRALIANA.
Sbarchiamo a Darwin, Northern Therritory.
Ce l'abbiamo fatta, in faccia a tutti i pessimistologi di questo mondo, e senza alcun problema, ne' furti, ne' rapine, ne' violenza: il mondo e' un bel posto. A parte questo in aereoporto ci hanno sequestrato la cerbottana del Borneo perche' "potrebbe essere usata come arma". Grazie.
Ci mancate tutti, ma siamo felici.
Ovviamente continueremo i nostri racconti con la descrizione e con le foto del viaggio in Australia, per chi di voi avra' voglia di sognare un po' di vacanza in piu'.
Ora dobbiamo arrivare a Townsville dove ci aspettano i miei zii e tonnellate di agnolotti!!!
Il problema e' che sono 3000 km...

F & V

L'autobus


Guardatelo bene. Fate ingrandimenti e studiatene i dettagli.
Se lo vedete, in qualunque parte del mondo, NON CI SALITE per carita'!
Adesso vi racconto.
Ci eravamo lasciati con noi felici per avere trovato subito una coincidenza per Jakarta. La partenza era per le 20,00. L'autobus si presenta per le 18,30: meraviglioso, addirittura in anticipo!
Quando saliamo noi, l'autobus e' gia pieno. Quando dico pieno, non intendo pieno di passeggeri, non solo: tutto il corridoio, le scale per salire e il tetto, sono strapieni di borsoni, sacchi gabbie, scatoloni e secondo me da gente sepolta.
Sono rimasti liberi solo i due sedili in fondo della fila destra, gli ultimi prima della fila di 6 sedili finale, occupata da scatoloni e da uno che li sistema.
Io non ci entro con le gambe, con tutta la buona volonta'. Virgy si piazza sul lato esterno e, appoggiando una gamba su una valigia ed un'altra su un sacco di non si sa cosa, si aggiusta.
Visto che il tipo dietro finisce di sistemare le cose, mi piazzo in un buco nell'ultima fila, con le gambe appoggiate in avanti sulle valigie e i pacchi (il pavimento non e' letteralmente piu' calpestabile).
Sono abbastanza comodo, anche se ho un palo di ferro tra le mie gambe, proprio vicino a zone delicate: basterebbe un brusca frenata a frustrare ogni velleita' riproduttiva della povera Virgy.
A questo punto noto altri pali. Tutto il corridoio e pieno di pali di ferro verticali che sostengono travi di legno che a loro volta impediscono ai bagagli di sopra di farci compagnia. Bene.
Immagino che le regole della sicurezza siano naturalmente tutte a posto.
Durante le prime ore della notte e' un continuo di scendi e sali e di valige che entrano ed escono, e noi sempre ad alzare e abbassare le gambe per consentire le manovre.
Notate che tutti coloro che salgono devono camminare nel corridoio sulle valigie degli altri per arrivare al loro posto.
Quando siamo stracarichi e non ci sono piu' posti, spero che siamo alla fine: invece continuano a caricare gente che si infila tra i pacchi in posizioni che per me sarebbero da vietare dalla Convenzione Internazionale di Ginevra.
Il secondo autista, adagiato su un materasso pulcioso dietro l'ultima fila di sedili, alle 2.00 comincia il suo concerto di russo col fischio.
Ma non e' un problema, alle 2,45, il creativo conducente decide che ha voglia di musica e spara a tutto volume un po' di pop indonesiano. Incredibilmente nessuno dice nulla: io gli urlo qualcosa in inglese, ma se ne fotte.
Per fortuna dopo una mezz'ora ne ha abbastanza anche lui.
Alle ore 3,50 comincia un acquazzone che, dopo pochi minuti, ci raggiunge all'interno dell'autobus attraverso tutti i bocchettoni dell'aria condizionata rotta, e l'acqua traspira da ogni lembo di tappezzeria. Siamo allo stremo.
Virgy, per questa tratta, merita certamente la Medaglia d'Oro per la Resistenza.
I nostri sedili sono zuppi e dobbiamo alzarci. Virgy viene ospitata su un mezzo sedile da una gentile ragazza, io sto in piedi per due ore, i locali semplicemente infilano le tendine nei buchi dell'aria condizionata in modo che assorbano l'acqua, e quando cominciano a gocciolare anche quelle si mettono un asciugamano dove cadono le gocce: ammirevoli.
Finalmente, arriva l'alba.
Finisce la pioggia e il giorno successivo passa abbastanza tranquillamente, cosi' come la notte: qualcuno e sceso e possiamo sederci. Un passeggero e' dispiaciuto perche', dice, porteremo con noi un pessimo ricordo del suo paese.
Volevo dirgli che desideravo ardentemente uno tsunami gigantesco sommergesse tutte le isole dell'arcipelago sterminando ogni forma di vita, ma gli rispondo che avro' un bellissimo ricordo dell'Indonesia, ma un pessimo ricordo di questo autobus. Magari e' anche vero.
Il giorno dopo, alle 13, arriviamo a Jakarta. Anzi, no.
L'autobus ci scarica a 20 km da Jakarta e prendiamo un taxi (che ci costa quasi quanto l'autobus) per arrivare in citta.
Jaksa e' una piccola via dove i globetrotter, o backpackers, trovano alloggiamenti economici e servizi come internet e pub.
Troviamo un discreto alberghetto e la camera, anche se su standard di pulizia asiatici, e' accettabile.
A parte lo specchio del bagno che va autonomamente in frantumi dopo 10 minuti.
A Jakarta incontriamo personaggi interessanti.
Uno ci vende una cerbottana da caccia del Borneo; lo invitiamo a bere qualcosa con noi e ci racconta della sua vita. Vive in un piccolo villaggio del Borneo con la moglie e due figli. Non lavora e durante l'anno va a caccia di scimmie per mangiare; quando e' stagione turistica, si reca nella capitale per cercare di fare qualche soldo per la scuola dei figli e i vestiti.
Un altro, poi e' radioso perche' un turista americano gli ha promesso di fargli avere la green card per lavorare negli USA, dove avrebbe gia' un posticino part time in un albergo a Los Angeles. Lui ha gia' tutti i suoi progetti in testa: e' sicuro di trovare un secondo lavoro,"magari come uomo dell'immondizia perche' sono lavori che loro non vogliono fare", e guadagnare anche nove dollari l'ora e 12 la domenica. E la famiglia? Gli chiediamo.
"Io adesso vado li' con un contratto di sei mesi, dice, poi, se avro' una promozione il mio contratto diventera' di 3 anni, e alla fine di quelli, magari avro' abbastanza soldi per farli venire qui' ". Sticazzi.
Il terzo fa un po' pena, ha la mia eta' ma sembra mio nonno, ha la madre malata e rompicoglioni che pretende da lui tutti i soldi che trova in giro e non gli consente di lasciare Jakarta per cercare piu' fortuna in posti piu' fortunati, tipo Bali. Ripete continuamente che suo padre se ne e' andato quando lui era piccolo e per questo e' un irresponsabile e lui lo odia.
O e' il piu' grande attore che abbia mai visto, oppure evidenzia qualche psicosi neanche troppo latente.
Per la cronaca, Jakarta fa schifo. Evitatela pure. Il loro orgoglio, il monumento all'indipendenza, e' stato costruito negli anni sessanta su progetto di architetti russi: ho detto tutto.
Temevo un pochino il passaggio in questo paese , il primo decisamente islamico, ma la gente si e' dimostrata sempre molto aperta e cordiale.
Virgy ha ovviamente spopolato.
Nella foto la piu' grande moschea dell'Asia, accanto ad una cattedrale cattolica.
Perdiamo un altro giorno perche non ci sono autobus, ma poi riusciamo a partire verso Bali.

F & V

Ko Tao - Singapore - Pekambaru (Indonesia)

Ci siamo ancora, i colpi di stato e gli eventi mondiali non ci toccano... ma scusate il ritardo, a volte trovare computer che non vadano a carbone da queste parti e' dura.
Ma dicevamo...
Lasciata la adorabile e quieta Ko Tao, ci hanno traghettati verso la terra ferma, dove abbiamo alloggiato in un alberghetto, in attesa di prendere un autobus per Singapore il giorno dopo.
Siamo usciti a cercare un famoso mercatino alimentare che doveva fornirci etti ed etti di croccanti bocconcini di insetti, ma non lo abbiamo trovato.
In compenso ci siamo consolati con seppioline alla griglia, pollo alla medesima maniera e gli immancabili noodle.
Il viaggio per Singapore e', nel primo tratto, su minibus. Decente.
Attraversiamo tutto il sud della Thailandia ed entriamo in Malesia; alla sera ci depositano presso una agenzia in un porto commerciale in una citta' che non ho nemmeno capito quale fosse.
L'ambiente piuttosto "portuale", pittoresco e intrigante, ma inquietante, ci confina nell'agenzia fino alla partenza del secondo autobus alle 20.00.
Che meraviglia!!
Posti larghi, sedili quasi totalmente reclinabili, poggiapiedi e aria condizionata che condiziona!!
La notte vola via e ho voglia di corrompere l'autista affinche' ci porti fino a Sydney ma, naturalmente, non e' possibile.
Singapore e' un po' la svizzera dell'indocina: pulita, organizzata, ricca, e per questo meno simpatica.
Comunque una immersione nella civilta' e' un piacevole diversivo, dopo quasi un mese e mezzo della piu' dura Asia.
I prezzi, naturalmente, non sono quelli della Cambogia, ne' della Thailandia, ma anche qui', con un po' di attenzione e qualche domanda, si puo' sopravvivere.
Ci piazziamo in un ostello nella zona centrale, nel dormitorio, per circa 7 euro a testa.
E' il 14 settembre, disgraziatamente anche il mio compleanno. Lo passiamo a spasso per Chinatown , con le vecchie case coloniali riconvertite alla vendita di qualunque cosa e i vecchi templi schiacciati tra le torri di cemento dei grattacieli scintillanti, e poi in giro per l'acquisto dei biglietti della nave per l'Indonesia. A Singapore viaggiamo a cavallo della linea dell'equatore; da domani passeremo il confine dell'altro emisfero, quello boreale.
Sara' ora di andare ad incontrare la Croce del Sud e tutte le altre stelle che Virgy non ha ancora mai visto e che fanno, anche di questo cielo, un buon posto per perdersi.
E' stato un errore non comprare almeno le cartine delle zone dove passeremo, perche' ci parlano di posti che non conosciamo e nessuno ha a disposizione delle mappe.
Ci fidiamo.
Il giorno dopo partiamo; lasciamo Singapore e ci rituffiamo nell'Asia estrema: Indonesia.
Prima tappa Sekupang, un'isola a solo un'ora da Singapore, ma non c'era possibilita' di fare altro.
Ovviamente non c'e' modo di andarsene fino al giorno dopo, quando partira' la nave per Pekambaru, sull'isola di Sumatra.
Passeggiamo per la citta' e lo spettacolo e' quello da poco lasciato, tassisti improvvisati che si propongono ad ogni angolo, bambini con abiti lisi che giocano scalzi nello sporco, e tanta umanita' cordiale.
E' davvero impressionante la regolarita' con cui tra i poveri del mondo si trovino sempre dignita', cortesia e disponibilita', mentre tra i piu' fortunati il primo approccio e' quasi sempre il sospetto o al massimo l'indifferenza.
Al mattino presto la nave parte per un viaggio di sette ore nel mare dell'Indonesia.
Ritroviamo stranamente le vecchie abitudini cinesi che non avevamo piu' trovato dopo il Vietnam (sputi, gente che butta tutto ovunque, mani unte di pollo pulite sul sedile...).
Noi, illusi, speravamo, dopo sette ore di arrivare a Pekambaru! No, ci vogliono altro 5 ore di un autobus scassatissimo che sfreccia a velocita' criminale sulle strade sterrate di Sumatra, e che viaggia con vetri e porte aperte per il caldo.
Va tutto bene, a parte che mi giunge sui pantaloni la sputazza di uno che alcuni sedili avanti mastica dei semini.
Arriviamo finalmente a Pekambaru e ci informiamo per un mezzo verso Jakarta, la capitale.
Siamo fortunatissimi, pensiamo: ce n'e' uno alle sei di sera, tra un'ora!
Che errore...

F & V

12 settembre 2006

Ko Tao


Per il nostro relax abbiamo scelto Ko Tao, piccola isola nel Golfo della Thailandia, vicina alle piu' famose Ko Samui e Ko Phangan.
Abbiamo fatto centro!
Abbiamo trovato un gruppo di bungalow in legno con tetto in paglia immersi in una foresta di palme da cocco, a pochi metri da un mare caraibico.
Sulla terrazza del bungalow c'e' anche l'amaca: che vuoi di piu'?
Non ci sono strade che portano ai bungalow, per raggiungerli bisogna fare 20 minuti di strada a piedi in salita e in discesa: ovviamente qui' non c'e' mai nessuno.
Per mangiare ci appoggiamo un po' al ristorantino sulla spiaggia, che e' dotato di tavolini bassi bassi e cuscini all'orientale, e un po' al supermarket dove ci riforniamo di pane, salumi e frutta.
Abbiamo passato due giorni a non fare assolutamente nulla, se non leggere, prender il sole ed assistere a tramonti spettacolari che sembravano esplosioni atomiche.
Ora bisogna ripartire per Singapore; si comincia a sentire puzza d'Australia, e dobbiamo cominciare ad informarci per eventuali navi.
Domani mattina alle 10 prenderemo il traghetto per Surat Thani, dove, il giorno dopo alle 6, prenderemo un minibus verso la Malesia e poi Singapore.
Speriamo siano comodi!
Buona notte a tutti.

F & V

Siem Reap - Bangkok

Per 11 dollari compriamo il biglietto dell'autobus per Bangkok; la gentile signora dell'agenzia, assicura che il minibus e' dotato di ogni comfort: sarebbe da trenta posti, ma loro lo caricano solo con 20 persone per consentire piu' comodita'.
Al mattino successivo, ci ritroviamo stipati in una specie di Ape Car cassonato con l'aria condizionata a singhiozzo.
Io sono costretto ad annusarmi le ginocchia per 5 ore, fino alla frontiera con la Thailandia.
I bagagli sono ammassati sopra il furgone e legati come capita.
Non sarebbe cosi' grave, se non fosse che la maggior parte della "superstrada" che collega Tahilandia e Cambogia, e' sterrata e piena di buche (foto 1): all'arrivo alla frontiera tailandese, i nostri zaini sono diventati rossi di terra.
Per fortuna l'autobus in cui traslochiamo e che ci portera' a Bangkok e' davvero comodo e mezzo vuoto, cosi' ci possiamo riposare un po'.
A bangkok ci sistemiamo in una zona orribilmente turistica, sembra di essere a Rimini ad agosto: una tristezza.
Sono rappresentati tutti gli stereotipi culturali del caso: giovani fricchettoni che esibiscono il loro "essere alternativi", figaccioni palestrati con le canotte strette, coppiette strafirmate allo struscio, e una quantita' di gay esibizionisti.
Decidiamo di dedicare solo una giornata alla citta' e di ripartire la sera dopo, per concederci un paio di giorni di mare su qualche isolotto.
Il giorno dopo visitiamo il vecchio Palazzo Reale con il Tempio del Buddha di Smeraldo e curiosiamo per la citta' in Tuk Tuk. Il caldo e' pesante, e lo smog fa tossire e Virgy rimedia come puo' (foto 3).
Il tempio ha pareti esterne ricoperte di decorazioni d'oro e dipinti su ceramiche incorniciati da pietre preziose, mosaici elaborati e mura di cinta che dal lato interno raccontano per immagini (spettacolari) storie della vita di Buddha e leggende tailandesi.
Una volta il Buddha di smeraldo, non era di smeraldo. O meglio, era stato ricoperto di gesso per evitare che facesse troppo gola ai ladri; durante un trasporto cadde e rivelo' il suo interno prezioso: da allora fu rubato dai laotiani e riconquistato da un sovrano tailandese, che decise di costruirgli come omaggio questo tempio.
Il Buddha, alto circa 75 cm., siede in una enorme stanza carica di decorazioni d'oro, su una ulteriore montagna d'oro, costituita da stupa (statue) di altre divinita', casse decorate e altari.
Esternamente ci sono quattro torri, che alla base sono protette da cariatidi che sonostatue di demoni coloratissime e scintillanti d'oro e argento.
Vale la pena una visita.
Ma bando alle ciance: si parte per il mare!

F & V

Angkor

Siamo giunti a Siem Reap, localita' del tutto inutile, se non fosse per la vicina localita' di Angkor, dove sorgono i magnifici templi dell'era Khmer.
Tanto per cominciare, ci sistemiamo in una stanza presso una guest house gestita da un ragazzo austriaco, fuggito in indocina, Michael.
La stanza ha aria condizionata ed e' carina: 10 dollari a notte (tutto a Siem Reap si paga in dollari).
Facciamo una passeggiata di approccio alla citta', e ci concediamo il primo vero esotismo estremo, una tarantola arrosto; io con titubanza la mangio tutta, Virgy coraggiosamente si limita alla coscia.
Durante la passeggiata veniamo a sapere che, dopo le 17, l'ingresso ai templi e' gratuito, ammesso che si sia acquistato il biglietto per il giorno dopo. Cio' consente di andare a fotografare l'Angkor Wat al tramonto.
Cerchiamo un Tuk Tuk (comune carrozzetta trainata da uno scooter) e ci rechiamo in loco.
Io mi inerpico verso una collina che consente una buona visuale, ma sbaglio strada e prendo il sentiero che seguono gli elefanti per portare i turisti. Il sentiero e' abbastanza stretto, e ogni volta che incrocio un pachiderma mi devo appiccicare alla parete della collina per non farmi calpestare.
Il tramonto e' davvero bello, e a sera rientriamo per la cena.
Cerchiamo anche qui' posti frequentati da locali e non da turisti, dove spesso l'igiene e' un'opinione, ma l'esperienza piu' realistica.
Anche qui' la fila di questuanti e' interminabile e facciamo fatica a mangiare.
Ho deciso che mi svegliero' alle 4,30 per andare a vedere l'alba sui templi.
Scatta l'ora X e mi preparo mentre Virgy, beata lei, sonnecchia pesantemente.
All'interno dell'Angkor Wat ci siamo io, due francesi, qualche tedesco e circa 900 giapponesi, tutti con almeno tre macchine fotografiche ultimo grido: e' inutile che le comprino, tanto hanno il gusto estetico di un ratto!
Poi vi racconto che foto fanno...
L'Angkor Wat (foto 1) e' il piu' grande edificio sacro del mondo, ed e' stato costruito in diversi anni intorno al X secolo, durante l'impero Khmer, che all'epoca comprendeva Cambogia, Laos, buona parte del Vietnam e della Thailandia.
E' contornato da un canale largo 150 m. per ogni lato e da mura possenti e con splendidi bassorilievi.
All'interno delle mura ci sono due piccoli templi e un lungo ponte in pietra che porta al tempio vero e proprio, il cui cammino e' scandito da sette punti precisi, che rappresentano i sette livelli di conoscenza che bisogna attraversare per giungere alla verita' (il Tempio, casa di Dio).
C'e' poi ad un chilometro l'Angkor Thom, anche qui ci sono mura perimetrali chilometriche che al centro contengono uno stranissimo edificio.
Una specie di tempio a piramide in cui un gigantesco volto di pietra dall'aria sorniona e leggermente minacciosa e' scolpito per quasi trecento volte e ti osserva da ogni prospettiva.
E' molto suggestivo vedere la giungla che, secolo dopo secolo, si rimangia queste meraviglie dimenticate per tanti anni.
Chissa' che meraviglia, per il francese che riscopri' questo posto alla fine del XIX secolo, quando tra le pietre dei templi vivevano solo tigri, elefanti e serpenti!
La visita prende tutta la giornata, e devo pure correre, e a sera sono sfatto.
Consumata la solita cena a base di noodle e maiale (o pollo o gamberi), alle 19 sono a letto.
INVETTIVA CONTRO I GIAPPONESI
Virgy non e' d'accordo a che io scriva queste parole, presa ormai da un senso di fratellanza universale, ma proprio non ce la faccio.
Conoscete tutti la mia estrema tolleranza ed elasticita' mentale, ma qui' si va oltre.
In tutti i luoghi sacri di Angkor ci sono cartelli che invitano a tenere comportamenti adeguati.
Immaginatevi il silenzio nella notte della foresta, con gli uccelli che ai primi albori cominciano i loro canti...
I giapponesi (tutti!!) urlano e schiamazzano salutandosi a gran voce da un posto all'altro e fanno la gara a chi arriva prima in cima alle rovine.
Quando arrivano, fanno SEMPRE la stessa foto: lui (o lei) davanti al monumento che porgono la mano in modo da dare l'illusione prospettica di tenerlo sul palmo, o piu' spesso le dita in segno di vittoria; meglio: di conquista. Ma quale conquista!? Non sanno nemmeno dove stanno! Li hanno portati li' col pulmino e non sanno nulla di cio' che vedono. Vivendo in branchi, bisogna aspettare che ognuno di loro abbia fatto la stessa identica foto. Questi templi sono miracoli di arte e architettura costruiti quando loro erano poco piu' che scimmie, eppure col potere del denaro credono di poter arrivare e comportarsi da cafoni.
Dovrebbero chiedere scusa ad ogni sasso che calpestano.
Il livello piu' basso lo hanno raggiunto dentro il tempio con i giganteschi volti: hanno srotolato (con attenzione, per non rovinarlo) lo striscione con il nome della ditta e si sono messi tutti dietro per la foto, litigando per chi doveva stare davanti.
Essendo una quarantina, a turno uscivano dal gruppo e andavano davanti a fare la foto. Se chiedevano a me gliene facevo una con una loro macchina e poi si facevano le copie, ma era troppo intelligente.
Riescono ad appestare qualunque luogo: li odio.
Okay, mi sono sfogato, a presto.

F & V

10 settembre 2006

Battambang !!

Primo obiettivo raggiunto!
Da Ho Chi Min City abbiamo preso un autobus per Phnom Penh, dove siamo arrivati alle 12,30.
Alla stessa ora partiva l'ultimo autobus per Battambang, e noi non avevamo i soldi per il biglietto perche' dovevamo prelevare o cambiare: niente paura, con il metodo asiatico tutto si risolve.
Abbiamo chiesto ed ottenuto che l'autobus ci attendesse, abbiamo fatto la nostra commissione e siamo partiti con un po' di ritardo (nessuno ha detto ovviamente nulla).
A Battambang abbiamo preso alloggio e ci siamo fatti subito portare da due mototaxi all'ospedale di Emergency, per portare i saluti di tutti.
Disgraziatamente l'ospedale ha orari fermissimi e giorni di visita prefissati, e nonostante le nostre gentili insistenze, non ci e' stato possibile parlare con personale italiano (il medico di turno stava operando un bambino).
Siamo comunque entrati nel cortile esterno dell'ospedale, giusto per la foto ricordo; dopotutto la cosa piu' importante l'avevamo gia' fatta a Torino.

Ancora oggi le vittime da mina anti-uomo in Cambogia sono molte: in tantissimi posti, anche vicino ai templi di Angkor, allontanarsi dai sentieri segnati e' un pericolo.
Cosi', un po' delusi ma contenti di avere contribuito nel nostro piccolo, siamo andati a cena.
In realta' mangiare in Cambogia non e' cosi' semplice. Dopo pochi minuti si e' presentato un ragazzo di circa 20 anni che, in ginocchio, ci ha chiesto qualcosa da mangiare. Noi, ovviamente, gli abbiamo fatto preparare un panino. Poco dopo e' arrivato un bambino: stessa richiesta e secondo panino.
Il terzo era senza una gamba e aveva circa 25 anni e si e' presentato con un quarto, piu' anziano, anche lui menomato; non potendo continuare all'infinito, abbiamo detto di dividersi il secondo panino e loro se lo sono litigato e strappato di mano l'un l'altro.
Vi assicuro che l'appetito passa subito.
La storia delle mine anti-uomo in Cambogia e' la seguente.
Tra il 1975 e il 1979 gli Khmer Rossi, capeggiati da Pol Pot (il Fratello N.1), hanno massacrato milioni di cambogiani in modo atroce, nel tentativo piu' radicale di trasformazione della societa'.
Tutti coloro che vivevano in citta' furono obbligati ad andare a lavorare nelle campagne (compresi i malati negli ospedali).
Purtroppo per lui, Pol Pot fece continue incursioni nel delta del Mekong, territorio Vietnamita, rivendicandone la proprieta'.
I vietnamiti, che come abbiamo visto, sanno bene come difendersi, invasero la Cambogia.
Gli Khmer Rossi si ritirarono nelle campagne e disseminarono il territorio di mine e trappole; la stessa cosa fecero i vietnamiti per impedire i movimenti agli Khmer... E Voila'.
Di tutti i paesi attraversati, la Cambogia e' evidentemente quello piu' povero, qui' la fame si vede eccome! Eppure quando tu, turista straricco (per loro) passi con l'autobus con aria condizionata attraverso i villaggi, i bimbi nudi ti salutano, ti sorridono e ti mandano baci.
Cosa accadra' quando questi bambini prenderanno coscienza delle nostre colpe e dei propri diritti? Un altro Bin Laden cambogiano? Eppure basterebbe poco... Evidentemente un Bin Laden in piu' fa sempre comodo.
La mattina presto abbiamo preso una barca che, in un viaggio spettacolare, ci ha portati fino a Siem Reap, dove volevamo visitare i templi di Angkor.
Essendo il fiume ancora basso, in certi passaggi la barca sembrava arrancare in strettissimi passaggi in mezzo alla vegetazione.
In altri passaggi si attraversavano comunita' fluviali che vivono in case galleggianti. Ovunque tanti bambini.
Domani visiteremo l'Angor Wat, l'edificio sacro piu' grande del mondo, e tutti gli altri templi che costituiscono questo vastissimo sito archeologico.
Vi racconteremo presto. Un bacio a tutti.

F & V



Cu Chi

Cu Chi e' un'area rurale che si trova a circa 70 Km a nord-ovest di Saigon.
Da quest'area, durante la guerra contro gli Stati Uniti, giungevano numerosi attacchi notturni da parte di Vietcong.
Pur rastrellando la zona, i soldati americani non trovarono nulla per lungo tempo; pensarono quindi che i Vietcong, di giorno, si travestissero da contadini, e ne massacrarono un bel po' (foto uno: soldato ameicano sorridente con pezzo di vietnamita).
Cio' nonostante, gli attacchi continuavano.
Pensarono allora di deforestare la zona per togliere ogni riparo ai guerriglieri, ma nulla.
Sparsero a questo punto un bel po' di Agente Arancio, un potente diserbante con effetti sull'uomo, su tutta l'area, compresi i villaggi: nulla. Allora tirarono fuori bombe al fosforo e napalm. Nulla.
Casualmente, un soldato americano scopri' un piccolo buco nel terreno. Quel buco, scoprirono, faceva parte di una rete sotterranea di cunicoli che si sviluppava su tre livelli e lunga quasi trecento Km., fino a spingersi all'interno della periferia di Saigon.
Non ci fu modo, comunque, di stanare i Vietcong. Se distruggevano una parte di galleria, quelli si spostavano in un'altra, se introducevano gas tossico, si spostavano di livello oppure uscivano da buchi che finivano direttamente sotto il Mekong.
In quei tunnel i Vietcong vissero per piu' di dieci anni e qui' approntarono sale riunioni, mense, dormitori e ospedali. Molti bambini nacquero all'interno dei cunicoli.
Noi siamo entrati per circa 15 metri all'interno di uno dei cunicoli "grandi", largo circa 70 cm ed alto circa 100: un incubo.
Buio, caldissimo e con un senso di oppressione e soffocamento indescrivibili.
Pensare di fare una vita del genere per 10 anni, significa avere una determinazione spaventosa. Tutta la foresta era inoltre piena di trappole con punte micidiali e di mine. Non avendo a disposizione materiale ne' per le punte in ferro, ne' per le mine, i Vietcong avevano imparato a segare in due gli ordigni inesplosi dei bombardieri americani ed usarne l'esplosivo per costruire le mine; per le punte di ferro raccoglievano, fondevano e rimodellavano le schegge delle bombe esplose. Usavano pertanto dire: le bombe americane, uccidono i soldati americani.
Tutt'ora nascono bambini malformati, privi di arti o dementi a seguito delle armi chimiche usate negli anni '70. A seguito di cio' il governo vietnamita ha chiesto agli Stati Uniti di occuparsi almeno in parte di questo problema, contribuendo economicamente al mantenimento di questa gente; la posizione ufficiale degli Stati Uniti e' che loro non usano armi chimiche, quindi non e' colpa loro, pertanto non si sentono responsabili.
La storia di Cu Chi rafforza, casomai ce ne fosse bisogno, la mia idea che se gli Stati Uniti fossero una immensa salina priva di vita, la terra sarebbe un'oasi di armonia e gioia nell'universo.

F & V

03 settembre 2006

Hanoi - Ho Chi Min City (Saigon)

Il tempo corre e l'Australia ci attende, non possiamo perdere troppo tempo.
Da Hanoi prendiamo un autobus che ci porta verso sud, dove promettenti spiagge e tropicali bellezze ci attendono.
Tanto per cominciare, ad Hoi An, dovendo attendere tempi tecnici dell'autobus (6 ore), ci infiliamo nella piscina di un Hotel, l'acqua della quale, al mio ingresso, si unge come se invasa da polli fritti. Le piante dei miei piedi, a forza di usare i sandali, sono nere, dure e lucide; non c'e' verso di lavarle. Andando verso sud il paesaggio e' sempre piu' verde e le risaie cominciano a lasciare il passo ad altre coltivazioni, piu' consone alla latitudine (banane); la terra rossa che si trova sempre verso l'equatore comincia a macchiare il paesaggio qua' e la'.
Terminata la piacevole pausa partiamo e ci fermiamo a Mui Ne.
Mui Ne e' famosa per le spiagge e le dune desertiche che punteggiano la sua costa. Virgi stoicamente si adatta a riposare come e quando puo'.
Con le festivita' siamo sempre un po' sfigati: se in Cina le vacanze hanno riempito i treni di studenti, in Vietnam oggi (2 settembre nda) e' la festa della dichiarazione di indipendenza, per cui tutti gli alberghi sono pieni.
Riusciamo pero' a trovare una stanzetta in un bel resort sulla spiaggia, ma senza aria condizionata. Quando entriamo ci accolgono festosamente almeno 10.000 zanzare che aspettavano proprio questi giorni per fare scorta di grasso per l'inverno.
Per fortuna il letto e' dotato di una robusta zanzariera e noi ci cospargiamo di puzzolentissimo Autan Extreme. La notte passa bene. Passiamo un po' di tempo a ciondolare in spiaggia, dove passa anche una bella mandria di mucche. Purtroppo il mare non e' granche', diciamo che siamo ai livelli di Albenga.
Il giorno dopo decidiamo di fare una breve gita in moto con Mr. Binh, uno specialista nel campo.
Visitiamo al mattino presto il mercato del pesce sulla spiaggia, dove i pescatori appena rientrati espongono la mercanzia. Ci sono molti bambini che si danno da fare e Virgy chiede: ma questi bambini vanno a scuola?
La risposta e' quella che mi aspettavo e temevo: no perche' la famiglia ha bisogno di soldi e devono lavorare.
Ci portiamo poi in un pezzo di Sahara trapiantato sulla costa vietnamita; lo scenario e' piacevole ed insolito. Virgy si lancia in una discesa dalle dune con un bob improvvisato e prestato (con mancia) dalla bimba nella foto,con il risultato di creare un ulteriore Sahara dentro il costume.
Per finire abbiamo buttato un occhio ad un canyon di terra rossissima e giocato con l'iguana domestica di Mr. Binh. Costui e' un ometto baffuto e dai lunghi capelli; si direbbe un fricchettone in vacanza, ma prima di inventarsi questo mestiere era un contadino; sua moglie gestisce il ristorante di famiglia.
Dobbiamo dire che il popolo vietnamita e', tra quelli fino ad oggi incontrati, il piu' cordiale, allegro e disponibile.
E' evidente che le difficolta' economiche non mancano, ma non abbiamo mai visto persone abbandonate a se stesse a chiedere elemosine, o peggio.
Tutti si arrangiano come possono e tra loro sembra esserci un forte senso di solidarieta' e attaccamento alla patria; tutte le case hanno la bandiera rossa con la stella gialla, oltre che l'angolo dedicato agli antenati, che omaggiano quotidianamente con offerte di frutta e cibo.Per quanto concerne piu' approfondite analisi socio-economiche, vi rimando al diario di viaggio che partoriro' dopo tornato.
Ora siamo gia' a Saigon (Ho Chi Min City e' piu' corretto e patriottico, ma certamente meno esotico), dove speriamo di riuscire a visitare qualche cunicolo vietcong rimasto intatto e poi saluteremo il Vietnam e, con un po' di nostalgia, andremo verso la Cambogia.
Per il momento e' tutto, a presto.
F & V